Postato su 2018-08-09 In abusi, Dilexit ecclesiam

Due lettere e una sfida

CILE, P. Juan Pablo Rovegno •

Condividiamo “un testo per riflettere sul momento ecclesiastico che viviamo alla luce della nostra spiritualità”, di P. Juan Pablo Rovegno, Direttore del Movimento di Schoenstatt in Cile. Vista l’importanza del tema e la modalità di approccio abbiamo ravvisato l’opportunità, previa autorizzazione dell’autore, di pubblicarlo su Schoenstatt.org. —

Cara Famiglia,

iglesia

ho voluto condividere il contenuto di un discorso tratto dalle due giornate della Famiglia cui ho preso parte: quella della Famiglia di Valle de Maria (zona Maipo) a maggio dello scorso anno e una recente della Famiglia di Chillán, nelle quali ho parlato della crisi che viviamo come chiesa e che interroga e coinvolge anche noi.

 

P. Juan Pablo Rovegno

 

Due lettere e una sfida

Poniamo questa riflessione nel contesto di due lettere e una sfida comune: la lettera del Nostro Padre e la lettera del Santo Padre, due lettere che hanno scosso i destinatari. Entrambe sono state scritte alla chiesa: una alla chiesa tedesca, l’altra alla chiesa cilena. Le separano 69 anni, tuttavia esse sono strettamente unite: la prima lettera ci permettere di capire lo slancio della seconda; la seconda è un’applicazione molto concreta della prima.

Il nostro Padre scrive la sua lettera nel contesto della ispezione che ebbe luogo a Schoenstatt e delle osservazioni che si muovevano a ciò che viene considerato “idee o terminologie particolari” e, specialmente, al ruolo del fondatore della famiglia, alla sua autorità e ai vissuti paterno-filiali; cosi come il valore delle cause seconde, come espressione, cammino e certezza per il nostro incontro con Dio.

Dietro, ed eccoci alla critica del Padre, c’è il pensiero meccanicistico che separa ciò che deve essere guardato e vissuto nell’unità e nella complementarietà reciproca, “separa meccanicamente lì dove c’è unione, divide e oppone lì dove ci sono differenze e polarità destinate ad un reciproco contagio. Non è capace di unire Dio e le creature, natura e grazia, legame con Cristo e legame con Maria, fede e vita, autorità e obbedienza, persona e comunità. Questo modo di pensare atomizza la realtà e distrugge processi vitali”.

L’amare meccanicistico non è capace di stabilire legami personali stabili, cade nell’individualismo o nella massificazione, dipendenza o esigenza, senza capacità di una comunione libera e magnanima.

L’amore meccanicistico non riesce ad unire l’affettività istintiva con l’amore naturale e con l’amore caritatevole o soprannaturale.

La vita dell’uomo meccanicistico è una vita atomizzata, disintegrata nelle sue diverse dimensioni (personale, comunitaria, sociale, culturale, ecclesiastica), disgregata e discontinua.

Il meccanicismo finisce col distruggere il sano organismo dei legami, per l’incapacità di integrare, mettere in relazione, unire; di comprendere la realtà, mettendola in relazione ed integrandola.

La sua contropartita consiste nell’amare, pensare e vivere organici, dando speciale importanza alle cause seconde e alla pedagogia dei vincoli; la creatura è vista e amata nella sua relazione con un Dio personale: se si ama Maria, in lei si ama Cristo; se si ama il fratello, in lui si ama Dio. Se si ama Dio, ciò necessariamente si traduce in un amore verso gli uomini. Ma anche, nel contesto dell’autoformazione, un pilastro fondamentale della nostra spiritualità, dal momento che la nostra natura ferita e disorientata ha bisogno di percorrere con serietà un cammino di guarigione, riconciliazione e purificazione.

In questo contesto il padre scrive a una chiesa ritualista e liturgista, fatta di idee e norme, nella quale si è minimizzato il valore della persona e di tutto ciò che è naturale, il valore delle cause seconde e, in definitiva, il valore dell’incarnazione in virtù del quale tutto ciò che è umano è strada verso Dio.

Papa Francesco scrive la sua lettera in un contesto degli abusi di potere e di coscienza, e degli abusi sessuali da parte di noi consacrati. Lo fa nel contesto della vicinanza del suo sguardo dinanzi agli eventi di una crisi, specialmente delle nostre autorità ecclesiastiche, del modo in cui si vede la realtà e di come ci relazioniamo con lei. Dietro vi è una mentalità meccanicistica, non solo nei fatti dolorosi concreti, ma anche nel modo in cui viene esercitata l’autorità e di come si valutano le sue conseguenze.

Non abbiamo visto la totalità complessità del problema, rispondendovi parzialmente.

In parole semplici: primo, non valutare i fatti integrandoli con la dolorosa realtà degli abusi e le dinamiche che li favoriscono; secondo, non valutarli dal punto di vista della fede, pastorale e umana (vicinanza e comprensione della vittima dell’abuso), ma anche penale (si tratta di reati, non solo di peccati) e non solo canonica); terzo, mettere la reputazione di un’istituzione al di sopra  del dolore e della situazione delle persone; quarto, non analizzare la gravità della crisi delle modalità con le quali si esercita l’autorità e lo spazio che si dà alla libertà e al rispetto della coscienza dell’altro; quarto, separare il piano giuridico/canonico dalle conseguenze delle vittime e nella società; sesto, non analizzare le cause e le sue conseguenze unitamente alla disaffezione, alla distanza, al rifiuto e al dolore della società nei confronti della chiesa; settimo, continuare a camminare senza fermarsi a riflettere inserendo ciò che è successo in un contesto più ampio e trascendente.

Il modo con cui stiamo intendendo e ci stiamo relazionando con la realtà.

Potremmo proseguire, ma queste due lettere ci scuotono perché pongono la domanda su come intendiamo e ci relazioniamo con la realtà, in questo caso la dolorosa realtà degli abusi, e della maniera con cui stiamo rispondendo alle sfide del tempo.

Il pericolo risiede nella risposta che diamo, perché può anche essere meccanicista: sopprimere il sacerdozio o ridurlo a qualcosa di strettamente rituale, un cappellano asettico e distante, un buon funzionario; prendere tutte le misure di sicurezza e sentirci tranquilli per aver seguito le procedure; assumerci la responsabilità, anche a titolo di indennizzo, per porre rimedio al male causato e credere di aver risolto il problema …  staremmo, tuttavia, vedendo il problema in modo parziale, riducendo il problema in compartimenti separati, perché dietro il problema in questione c’è un modo di intendere ed esercitare l’autorità, di integrare e curare l’affettività, di intendere la religione oltre un buon comportamento o l’osservanza di riti o norme, di cogliere le domande, i dubbi e le ricerche dell’essere umano, come opportunità affinché Dio illumini e conduca; così come il valore della libertà e della coscienza personale.

Non è forse lo stesso che ci capita negli aspetti della vita sociale in cui dobbiamo vivere?

Il femminismo da battaglia è la risposta all’abuso dell’autorità maschile e alla mancanza di valorizzazione e integrazione della donna; ma una reazione disorganica finisce col negare il valore della differenza e della complementarità; l’ideologia del gender è la risposta all’invisibilità, al non accompagnamento e alla non integrazione sociale di realtà umane esistenti, ma una reazione disorganica finisce col relativizzare e addirittura negare l’ordine naturale dell’essere umano e dei necessari processi di sviluppo affettivi e sessuali; la tolleranza zero di fronte agli abusi è la risposta ad un dolore non emerso né percepite da strutture o dinamiche che lo favoriscono, ma una reazione disorganica finisce col minimizzaere o negare il sano vincolo filiale e di dipendenza quale cammino verso la piena autonomia; l’irruzione di correnti politiche anarchiche o di contestazione, così come le mobilizzazioni sociali, sono la risposta ad uno sviluppo economico e di opportunità ridotto a qualche privilegiato, e a condizioni sproporzionate per i suoi destinatari, ma una reazione disorganica ci sta facendo negare o distruggere percorsi e radicalizzare le differenze; la causa mapuche è la conseguenza di un problema di lunga data che ha a che vedere con il rispetto e l’integrazione di un popolo nei suoi costumi in una cosmovisione, ma una delle sue reazioni disorganiche è la violenza e la negazione dell’incontro e del reciproco arricchimento storico tra due culture; la sensibilità ecologica è la risposta alla mancanza di risposta verso la natura e all’abuso nello sfruttamento delle risorse naturali, ma una reazione disorganica è la sproporzione tra la cura dell’ambiente in rapporto alle esigenze umane.

 

In questo senso, la missione del 31 maggio è più attuale che mai:

Il valore e il senso dell’autorità come riflesso dell’autorità paterna/materna di dio che accoglie e accompagna l’individualità e il valore della filialità come contropartita, come percorso di crescita, autonomia e autentica libertà. Da un rapporto padre/figlio, scoprire la propria missione e originalità.

Il valore delle cause seconde come cammino per giungere a Dio: la rilevanza dell’ordine di essere natarale, per incontrarci con il Dio delle nostre vite e dei nostri processi.

Il valore del naturale o creaturale nel processo di fede e comprensione della nostra umanità: “la grazia presuppone la natura”, “la grazia guarisce, eleva e unisce la natura”, ciò che non è assunto non è redento”. In questa prospettiva risulta fondamentale una visione rinnovata dell’affettività umana, così come dell’integrazione, elaborazione e cura delle disabilità umane, anche del peccato umano.

Il valore dello sguardo che contempli insieme la vita, i processi e tutti gli aspetti della vita (umani, personali, pastorali, istituzionali, sociali, comunicazionali, etc.).

La Fede pratica, che ci permette di comprendere che, nei processi e negli eventi della vita, Dio è presente e ci guida.

A nostra alleanza e il suo compimento nella nostra collaborazione. In questo senso la caratteristica alla quale il nostro Padre ci ci invita è quella personalità creatrice della storia, che collabora attivamente durante il cambiamento dell’epoca e di fronte alla crisi che viviamo.

La nostra missione è più attuale che mai, poiché si inserisce nel contesto di una crisi sociale ed ecclesiaastica molto profonda.  Si tratta di porre l’accento su alcune dimensioni che ci permettano di accompagnare questo processo dall’interno, anticipandolo noi per illuminare ed accompagnare; lasciandoci contagiare da ciò che ci circonda, rivedere le nostre strutture e le nostre dinamiche (la crisi non ci è estranea, e non abbiamo il ricettario delle risposte), così come dialogare in modo creativo alla luce della realtà.

Una crisi che ci colpisce e fa male direttamente, anche come comunità dei padri, per sitazioni nella quale l’esercizio della nostra autorità ha danneggiato, a causa degli abusi o delle omissioni o di una guida debole e irregolare, persone concrete. Potremmo affermare, con dolore e umiltà, che potremo accompagnare il processo ecclesiastico che abbiamo iniziato solo se ci assumiamo la nostra responsabilità e proviamo solidarietà nei confronti di una chiesa e di una società ferite.

Alcuni spunti:

  •  Una chiesa famiglia, principio paterno, materno, filiale e fraterno. Che integri tutti, all’interno della rwaltà delle persone, e dove la santità si persegua nella vita concreta delle persone e nei processi vitali.
  • Una chiesa dialogante, in cui le sfide, le necessità, le possibilità e le difficoltà si esprimano, si affrontino e si assumano insieme con una visione corresponsabile e provvidente.
  • Una chiesa semplice, perché la cosa più importante sono le persone e l’incontro con il Dio delle nostre vite e della nostra storia. In questo senso, le nostre strutture e forme, i nostri spazi e contenuti, siano d’incontro per tutti. Ma anche, la semplicità di riconoscere limiti e disabilità, peccati e reati.
  • Una chiesa in uscita e votata all’incontro, che lasci zone sicure e conosciute, e cerchi nuove forme e dialoghi e si inserisca nella realtà, per arricchirci l’un l’altro. Una chiesa che, sebbene abbia bisogno di radicarsi e porre radici e detenga una verità e una proposta, si relazioni e formi parte di un mondo in costante tensione e sviluppo, ricerca, confronto, dialogo e cambiamento.
  • Una chiesa che preghi, che sappia fermarsi per pregare, riflettere e dar linfa al suo dono e alla sua missione in mezzo al mondo reale. Che sia capace di offrire e dare riparo, di amare e lasciarsi amare.  Orante, nel senso che sappia lasciarsi commuovere, toccare, complementare e arricchire dalla realtà. Orante, per scoprire un Dio presente nella realtà.
  • Una chiesa madre, che accoglie in seno tutte le realtà umane, specialmente le più bisognose di misericordia e accoglienza, per condurle a Dio e al Dio di ogni realtà umana, a un Dio personale.
  • Una chiesa di Cristo, nella quale la grande sfida sia dar luce a Cristo in mezzo a questo mondo e portare il mondo verso Cristo, all’incontro col Risorto. Cristo negli atteggiamenti, nei gesti e nelle palore di salvezza.

Una dimensione che merita un paragrafo a parte rispetto a quello della definizione della chiesa semplice, è quella della chiesa misericordiosa nelle sue miserie, afficnhé sia legittima portatrice di misericordia per l’umanità.  Affermazione che il Santo padre ha esplicitato nelle sue parole ai consacrati nella Cattedrale di Santiago, e che lui stesso ha tenuto ad assumere personalmente con le azioni successive.

E la sfida… amare la chiesa in queste circostanza, il che non significa giustificare l’ingiustificabile, difendere l’indifendibile, relativizzare ciò che è evidente. Bensì si tratta di tornare a rinnovare la nostra fede nella chiesa di Gesù Cristo e proseguire insieme lungo il necessario cammino di discernimento, conversione e rinnovamento che dobbiamo far nostro. Amarla significa, in questo contesto, collaborare attivamente a questo processo.

Interessante sarebbe rivedere l’attualità dei testi scelti dal nostro Padre a proposito a proposito de “Il Rinnovamento della Chiesa” (di Peter Wolf – tesdesco, spagnolo).

 

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