Postato su 2016-01-26 In Missioni

Tre missionari a Roma

ITALIA, Federico Bauml •

Per tutto il 2015, il movimento di Schoenstatt in Italia ha avuto la fortuna di ricevere tre ragazzi missionari venuti da Asuncion, Paraguay. Una bellissima esperienza, sia per i tre ragazzi che per noi che li abbiamo accolti, a cui vale la pena dedicare qualche riga.

Che cosa vuol dire fare missione?

Quando Padre Alfredo, dopo l’estate del 2014, ci ha detto che nel 2015 sarebbero arrivati a Roma tre ragazzi missionari dal Paraguay, tra i tanti sentimenti emersi, uno ha preso il sopravvento: la curiosità.

Curiosità da parte dei più grandi, che già nove anni fa avevano conosciuto l’esperienza dei missionari e che si chiedevano se quella fantastica esperienza fosse di nuovo ripetibile. Curiosità nei ragazzi che da meno tempo frequentano la parrocchia, divisi tra il fascino della novità e il dubbio di chi si trova a confrontarsi con un cambiamento.

Curiosità, sì, ma anche una domanda. Passano gli anni, cambiano i punti di riferimento, si cresce, si matura, ma di fronte a questa esperienza ci si pone sempre la stessa domanda: cosa spinge tre ragazzi di ventitré anni a lasciare casa, famiglia, amici e fidanzate e partire per un anno alla volta di Roma per “fare missione”?

Ma poi, “fare missione”, in concreto, che diavolo significa?

La volpe del Piccolo Principe, a questa domanda, risponderebbe che significa “addomesticare”, “creare dei legami”; e poi proseguirebbe spiegando che anche per fare missione ci vuole pazienza, e che servono i riti per rendere “un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore”.

Io, che non ho un millesimo del talento di Saint Exupery, potrei dire che fare missione significa “donare il proprio tempo”.

Già, perché di solito il tempo si “perde”, si “ammazza”, si “cerca”, “non si ha”, e se trovi qualcuno a cui viene in mente di “donarlo” capisci già che ha qualcosa di speciale.

Missionari montagna

I tre Caballeros

Ma descriviamoli, i nostri tre Caballeros venuti da Asuncion.

Uno è biondo con gli occhi azzurri, e più che dalla terra guaranì sembra sia stato strappato dai fiordi norvegesi. Vuole fare il Presidente della Repubblica e, anche se non si ricorda chi ha scritto I Promessi Sposi, parla l’italiano come se vivesse qui da quindici anni. Il secondo è grande e grosso, ha il cuore largo come le sue spalle, una ristata contagiosa e una speciale predilezione per la carbonara. Poi c’è il terzo, più piccolino – ma solo di statura -, sempre disponibile con tutti; parla poco, ma chiaro, e soprattutto fa parlare la sua inseparabile chitarra.

Ma di preciso, cosa fanno quando vanno “in missione”?

Per prima cosa, cantano, sempre, perché cantando si prega due volte. E poi camminano, in continuazione, ma senza correre, per non perdersi nulla del percorso. Accolgono, perché Schonstatt è soprattutto accoglienza. Condividono, quello che sono, quello che hanno, quello che sognano, che desiderano. Ascoltano e si interessano. E poi sono sempre allegri, disponibili, sorridenti – e sempre in ritardo, ma non si può essere perfetti nella vita.

In una sola parola, contagiano. Contagiano tutti quelli che li circondano, dai bambini del catechismo alle famiglie della parrocchia e del movimento, passando per gli anziani e, chiaramente, per il gruppo dei giovani. Contagiano con un sorriso, una preghiera, una parola, una canzone, una partita di calcetto, una birra o un barbecue.

Anche perché, rubando le parole a Mark Twain – scusa Nico, prendo la citazione in prestito – “il miglior modo per essere felici è rendere felice qualcun altro”.

Ci guadagno il colore del grano

Il momento dei saluti è sempre un po’ triste.

Ripensando ancora al Piccolo Principe, mi viene sempre in mente la domanda che il protagonista rivolge alla volpe nel momento in cui deve dirle addio: “e tu, ad avermi addomesticato, che cosa ci guadagni?”. La volpe, alludendo al colore dei capelli del suo piccolo amico, risponde: “ci guadagno il colore del grano”.

E noi? Noi, cosa abbiamo guadagnato dall’avere avuto Nico, Jorge e Braulio per un anno intero?

Pensiamoci un attimo.

Che cosa saranno mai due lacrime di malinconia rispetto a un anno di risate, alle partite allo stadio, o alla missione di Pasqua, al Cammino di Santiago, e a tutti i momenti quei passati insieme? Che cosa sarà mai la tristezza per un saluto rispetto al tempo donato? E che cosa contano quei dieci mila chilometri di distanza se poi per sentirci vicini basta una canzone o un whatsup sul gruppo?.

Ci abbiamo guadagnato una cappellina con sessanta persone dentro, un santuario pieno di giovini che aveva la magia del Santuario originale. Una gioventù che parte e che riparte.

Ci abbiamo guadagnato una scommessa ancora tutta da vincere; perché c’è un’altra missione che inizia adesso, nel mantenere quel fuoco che è stato acceso.

Ci abbiamo guadagnato la certezza che le nostre strade si incroceranno di nuovo, prima o poi.

“La distancia separa cuerpos, no corazones.”

Missionari Santuario

 

 

Tags: , , , , , , , ,

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *